Quando il lavoro si chiamava per nome

Quando il lavoro si chiamava per nome. È vero, anche oggi i lavori hanno la loro definizione
più o meno tecnica, ma nella vecchia Brianza, oltre ovviamente all’uso diffuso dei termini
dialettali per definire l’uno o l’altro mestiere, era consuetudine abbinare ad ogni venditore un
determinato soprannome. Nelle piazze e nelle vie dei paesi si creava così una toponomastica
alternativa che spesso e volentieri prendeva il posto di quella ufficiale, fatta di nomi altolocati.
In de te ste?” (Dove abiti?) – risposta “Visin ai tulè”(Vicino ai lattonieri) che in questo caso
erano, inconfutabilmente i “Romerio” di Via Pietro Ponti.
Per ricordare un po’ il nostro passato che spesso prende vita proprio nelle parole del nostro
dialetto, ormai sconosciute ai più, ecco un piccolo vocabolarietto dedicato ai vari mestieri,
ovvero i lavori e i commerci che dal mattino presto e sino alla sera erano l’attività delle numerosissime botteghe, che una vicina all’altra, in una sorta di catena, delimitavano e in un certo
senso rendevano vitali le vie e i quartieri dei nostri paesi.
Nell’operosa Brianza, l’arte del costruire era rappresentata da numerosi addetti, semplici prestatori d’opera o veri e propri artigiani con tanto di bottega.
Ul feré : la bottega del fabbro – Ul legnamé: la bottega del falegname – Ul tulé : il lattoniere
Ul trumbé: l’idraulico – Ul marmurin: il marmista – Ul sbianchin: l’imbianchino Ul sulin: il piastrellista – Ul vedrié: il vetraio – Ul picapréa: lo scalpellino.
Ormai solo nel ricordo vivono i mestieri legati alla costruzione dei carretti e ai cavalli.
La butéga di birocc e di cavaj con ul careté, ul fera-cavaj e ul selé. La bottega dei carretti e
dei cavalli con i rispettivi titolari: il carrettaio, il fabbro ferraio e il sellaio.
Percorriamo ora una vecchia contrada di paese per scoprire i piccoli ma nostrani venditori di
tutto ciò che serviva per il vivere quotidiano. Antesignano dei moderni supermercati, era la
butéga del pusté, che aveva un po’ di tutto, dai prodotti per l’igiene agli alimentari, dalle candele alle scope.
Anche se la carne era un lusso per pochi, ecco la butega del becché, il macellaio. Poco frequentata era anche la butéga del fruttiroeu, il fruttivendolo, in quanto quasi tutti i brianzoli
coltivavano in proprio orto e frutteto.
Zucchero, caffè caramelle, cioccolato e anche articoli coloniali facevano bella mostra nella
butéga del fondeghé, il droghiere. La più frequentata era però la butega del prestiné, il prestinaio.
C’erano poi le botteghe di artigiani e commercianti per vestirsi e curarsi. Ecco subito la butéga
del barbé, il barbiere e ul spizié, il farmacista. Per l’abbigliamento: la butéga del mercant de
stoff, ul sart de omm e la sarta, la camisera e la butega del calzular che vendeva le scarpe
e le riparava pure e il suo concorrente ul zaccuré, costruttore e venditore di zoccoli e l’ombrelé, l’ombrellaio.
C’era poi un aspetto che spesso caratterizzava le vie e i cortili, la presenza dei venditori ambulanti che con i loro carretti vendevano un po’ di tutto e riparavano l’impossibile.
Li accompagnava un alone di leggenda, fatta di aneddoti e ciascuno con un caratteristico soprannome erano: ul pessé, il pescivendolo, ul strascé, lo straccivendolo, ul segiuné, che vendeva suppellettili per la casa, ul mulèta, l’arrotino, ul cadregatt, il seggiolaio, ul spazzacamin.
Terminiamo questo nostro vagare con le numerose osterie besanesi dai caratteristici soprannomi tra cui: Puceta, Carini, Scepada, Camilin.